“Veleno” (2021) - Documentario: Recensione e riflessione psicologica

1. Introduzione 

Alla fine degli anni '90, una vicenda giudiziaria scuote l'Italia intera. In una zona rurale tra Modena e Reggio Emilia, alcune famiglie vengono accusate di far parte di una setta satanica che compie abusi rituali su minori. Quella che sembra una scoperta agghiacciante si trasforma, con il tempo, in una vicenda giudiziaria controversa e ambigua, che il documentario disponibile su Amazon Prime descrive come un gravissimo errore giudiziario, ma che presenta ancora oggi molte zone d’ombra e punti interrogativi irrisolti. La storia, storicamente nota come il caso dei "Diavoli della Bassa Modenese", viene riportata in luce prima attraverso un podcast giornalistico e poi nel documentario di Pablo Trincia. A questa narrazione si affianca quella proposta dal libro di Girolamo Giordano Bindi, che offre una rilettura critica e meno univoca degli eventi.[1] 

L’intento di questo articolo non è quello di stabilire chi abbia ragione o torto, né di difendere una parte o una categoria. Ogni lavoro e ogni ricerca che affronti esperienze traumatiche, difficili e segnate dalla sofferenza ha un valore intrinseco. Ogni contributo autentico, onesto e animato da un desiderio di comprensione e cura merita di essere riconosciuto e sostenuto. Questo articolo vuole offrire una riflessione ampia, fondata su ciò che la psicologia e le neuroscienze possono oggi dirci, al servizio di chi cerca la verità e la guarigione. 

2. La storia vera: i fatti 

Tra il 1997 e il 1999, nella Bassa Modenese, in particolare nei comuni di Mirandola, Finale Emilia e Massa Finalese, si aprì un’indagine giudiziaria che coinvolse numerose famiglie. Sedici bambini vennero allontanati dalle loro case in seguito a sospetti di abusi sessuali e presunti riti satanici. Le indagini nacquero dopo alcune segnalazioni, a cui seguirono colloqui tra i minori e operatori sociali e psicologi. Alcuni bambini iniziarono a raccontare storie che includevano violenze, rituali, omicidi e sotterramenti. I racconti furono verbalizzati, trasmessi alla magistratura e portarono a indagini e procedimenti penali nei confronti di diversi adulti, tra cui genitori, parenti e conoscenti. Nel corso degli anni successivi, alcuni dei procedimenti vennero archiviati, altri terminarono senza condanne o furono oggetto di sentenze di assoluzione, mentre in alcuni casi furono emesse condanne. Tuttavia, nessuna delle accuse più gravi relative a riti satanici e omicidi ebbe conferme oggettive attraverso prove materiali, e molti riscontri si basavano esclusivamente sulle testimonianze dei minori. La vicenda è rimasta per lungo tempo lontana dal dibattito pubblico, fino a quando è stata riportata all’attenzione nazionale dal podcast e dal documentario “Veleno”. Il caso continua a dividere l’opinione pubblica e a sollevare interrogativi sulla gestione dell’ascolto dei minori, sul ruolo delle istituzioni e sul rapporto tra memoria, trauma e giustizia. Le ferite lasciate da questa storia, per le famiglie coinvolte e per gli stessi bambini oggi adulti, sono profonde e complesse, e la verità completa di ciò che è accaduto resta, in larga parte, ancora difficile da affermare con certezza. 

(Le informazioni riportate in questo paragrafo si basano su fonti giornalistiche, documentazione pubblica disponibile, atti giudiziari e approfondimenti divulgativi. Tra questi, in particolare, il materiale raccolto dal podcast e dal documentario “Veleno”, nonché le analisi presenti nel libro di Girolamo Giordano Bindi. Tuttavia, va precisato che non esiste una sentenza univoca o definitiva che chiarisca ogni aspetto della vicenda nella sua interezza. Molti elementi restano oggetto di interpretazione e discussione.) 

3. Il documentario “Veleno” 

Il documentario "Veleno", basato sull'inchiesta giornalistica di Pablo Trincia, propone una narrazione potente, supportata da interviste, documenti originali e testimonianze. La tesi centrale è che si sia trattato di un gigantesco errore giudiziario, alimentato da una spirale di suggestioni, pressioni psicologiche e tecniche di interrogatorio inadeguate. Il tono è investigativo, a tratti emotivamente coinvolgente, e punta il dito contro i servizi sociali, gli psicologi dell'epoca e le istituzioni che avrebbero preso decisioni affrettate. È importante sottolineare che molti dei genitori coinvolti nel caso hanno partecipato attivamente all'inchiesta giornalistica di Trincia, cercando attraverso il documentario di raccontare la loro verità e ottenere giustizia. 

4. Il libro di Girolamo Giordano Bindi 

Girolamo Giordano Bindi, nel suo libro dedicato al caso, propone una rilettura critica della narrazione presentata nel documentario, mettendo in discussione alcune delle sue affermazioni e sottolineando la necessità di maggiore cautela. Secondo l’autore, l’operato dei servizi sociali, pur non esente da limiti, fu guidato dalla volontà di proteggere i minori in un contesto difficile, caratterizzato da forte emotività e pressione istituzionale. Bindi evidenzia l'importanza di non minimizzare segnali di disagio nei bambini anche in assenza di prove materiali, e invita ad adottare uno sguardo multidisciplinare, attento al contesto e alla complessità delle relazioni familiari. Tra i concetti chiave che propone, vi è quello di un ascolto protetto e non giudicante dei racconti infantili, capace di evitare sia la negazione sia la spettacolarizzazione del dolore. Come scrive l'autore: "Il rischio non è solo quello dell'invenzione o dell'errore, ma anche quello della rimozione collettiva di esperienze di dolore che non riusciamo a decifrare." 

Negli anni successivi, attorno a questa posizione si è formato un gruppo di adulti che da bambini furono coinvolti nella vicenda. Il gruppo, che si è identificato con il nome "Voci Vere – Vittime della Bassa Modenese", ha espresso pubblicamente la volontà di raccontare la propria versione dei fatti e offrire una narrazione alternativa rispetto a quella emersa nel documentario, rivendicando l’autenticità della propria sofferenza e della propria esperienza soggettiva. 

5. Due versioni a confronto 

Il confronto tra documentario e libro evidenzia quanto sia difficile, anche a distanza di anni, stabilire una verità univoca. Il documentario ha il merito di riportare alla luce un caso dimenticato, ma rischia talvolta di assumere una posizione troppo netta. Il libro di Bindi non propone una verità alternativa univoca, ma piuttosto cerca di restituire la complessità della vicenda, mettendo in evidenza come molte scelte siano state frutto di un contesto difficile, di informazioni parziali e della necessità di agire con urgenza. L’autore invita il lettore a interrogarsi su quanto possiamo fidarci delle ricostruzioni postume, anche quando sono ben documentate, e a non trascurare la possibilità che vi siano stati segnali di disagio reale nei minori, interpretati e trattati in buona fede dagli operatori del tempo. Entrambe le opere, pur divergenti, pongono interrogativi fondamentali sulla memoria, sul trauma e sulla fallibilità delle istituzioni. Inoltre, il fatto che alcuni genitori si siano schierati con Trincia e alcuni figli con Bindi rende ancora più evidente la complessità emotiva e psicologica di questa vicenda. 

6. Il nodo dei ricordi traumatici e dei falsi ricordi 

Uno degli aspetti centrali dell’intera vicenda è rappresentato dal tema dei falsi ricordi, ovvero ricordi di eventi mai accaduti che la persona crede veri. L’ipotesi su cui si basa la ricostruzione del documentario “Veleno” è che molti dei racconti dei bambini, nel tempo, siano stati distorti o costruiti a seguito di tecniche suggestive e pressioni involontarie da parte di adulti (terapeuti, psicologi, investigatori). 

Elizabeth Loftus, una delle massime esperte mondiali sul tema, ha dimostrato in numerosi studi (Loftus & Pickrell, 1995) quanto sia facile impiantare falsi ricordi, specialmente nei bambini. Gli esperimenti della “lost in the mall technique” hanno mostrato come basti un racconto plausibile e la ripetizione da parte di un adulto credibile per creare la convinzione di avere vissuto un’esperienza mai accaduta.[2] 

Anche la ricerca di Ceci & Bruck (1993) ha evidenziato la vulnerabilità dei bambini alla suggestione. Tecniche di intervista ripetitive, domande suggestive, o il rinforzo positivo (“bravo che l’hai detto!”) possono modificare profondamente la memoria del bambino. Questo è ancora più vero nei casi in cui i minori vivono in ambienti fortemente emotivi o instabili, o quando vi è una pressione implicita ad accontentare l’adulto. 

Neuroscienze e psicologia dello sviluppo mostrano che la memoria autobiografica si consolida lentamente nei primi anni di vita, ed è fortemente influenzata dalla narrazione esterna. Il sistema limbico (coinvolto nella regolazione delle emozioni) e l’ippocampo (struttura centrale nella formazione dei ricordi) sono ancora in maturazione fino all’adolescenza (Ghetti & Fandakova, 2020), rendendo i bambini particolarmente esposti a distorsioni mnestiche, soprattutto in condizioni traumatiche o stressanti. 

7. Psicologia e neuroscienze oggi: cosa sappiamo? 

Le ricerche contemporanee sulla memoria traumatica e sulla psicopatologia dello sviluppo concordano sul fatto che il trauma lascia tracce non solo nella mente ma anche nel corpo. Secondo Bessel van der Kolk (2014), i ricordi traumatici non si depositano come narrazione coerente, ma come frammenti sensoriali, immagini, sensazioni somatiche. Ciò avviene perché, durante eventi altamente stressanti, l’amigdala (responsabile dell’elaborazione emotiva) diventa iperattiva, mentre l’ippocampo viene inibito, compromettendo la codifica temporale e contestuale del ricordo. 

La psicologia clinica ha sviluppato strumenti sempre più sofisticati per lavorare con questi tipi di memorie. L’EMDR (Shapiro, 1989), la terapia sensomotoria (Ogden et al., 2006), e approcci basati sulla mindfulness o sull’integrazione corpo-mente si propongono di “riorganizzare” questi frammenti attraverso l’elaborazione sicura e graduale. 

Sul fronte neuroscientifico, studi di neuroimaging hanno osservato nei pazienti con PTSD una ridotta attivazione della corteccia prefrontale (sede delle funzioni esecutive e della regolazione cognitiva) e un’iperattivazione delle strutture limbiche. Altri studi (Bremner et al., 1995) hanno evidenziato riduzioni volumetriche dell’ippocampo nei soggetti esposti a traumi prolungati. 

Il compito della psicologia contemporanea è duplice: aiutare a distinguere i ricordi reali da quelli distorti o impiantati, e offrire percorsi terapeutici per la rielaborazione del dolore, senza alimentare suggestioni o giudizi affrettati. 

8. Conclusione 

Il caso "Veleno" ci costringe a riflettere sul potere delle narrazioni, sulla fragilità della memoria umana e sull'impatto che istituzioni e media possono avere nella costruzione di realtà complesse. In vicende come questa, è impossibile conoscere fino in fondo tutta la verità, ricostruire con certezza ciò che è accaduto, e comprendere appieno le ragioni per cui le cose si sono sviluppate in quel modo. È probabile che molti operatori coinvolti, dagli assistenti sociali ai magistrati, abbiano agito in buona fede, mossi dalla volontà di proteggere i bambini, parte più fragile e vulnerabile di ogni contesto familiare. 

Di fronte a eventi così complessi, la scienza in generale e la psicologia in particolare hanno il compito cruciale di fornire strumenti per comprendere, chiarire e accompagnare. Devono contribuire alla ricerca della verità, offrendo aiuto e guarigione a chi ne ha bisogno, proteggendo al tempo stesso le conoscenze scientifiche da ogni forma di strumentalizzazione o uso distorto. Non spetta alla psicologia giudicare, ma sostenere processi di verità, cura e giustizia attraverso dati, competenze e umanità. È con questo spirito che dobbiamo affrontare vicende come quella di "Veleno". 

Bibliografia 

  • Bessel van der Kolk (2014). The Body Keeps the Score. Viking Press.
  • Bremner, J. D., et al. (1995). MRI-based measurement of hippocampal volume in patients with combat-related PTSD. American Journal of Psychiatry, 152(7), 973–981.
  • Carhart-Harris, R. L., et al. (2021). Trial of MDMA-Assisted Psychotherapy for PTSD. Nature Medicine, 27, 1025–1033.
  • Ceci, S. J., & Bruck, M. (1993). Suggestibility of the Child Witness: A Historical Review and Synthesis. Psychological Bulletin, 113(3), 403–439.
  • Ghetti, S., & Fandakova, Y. (2020). Neural Development of Memory Monitoring. Current Directions in Psychological Science, 29(3), 256–263.
  • Loftus, E. F., & Pickrell, J. E. (1995). The Formation of False Memories. Psychiatric Annals, 25(12), 720–725.
  • Ogden, P., Minton, K., & Pain, C. (2006). Trauma and the Body: A Sensorimotor Approach to Psychotherapy. Norton.
  • Schacter, D. L. (2012). Searching for Memory: The Brain, the Mind, and the Past. Basic Books.
  • Shapiro, F. (1989). Eye Movement Desensitization: A New Treatment for Post-Traumatic Stress Disorder. Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry, 20(3), 211–217.
  • Siegel, D. J. (2012). The Developing Mind: How Relationships and the Brain Interact to Shape Who We Are. Guilford Press.

 


  

[1] il libro di Girolamo Giordano Bindi, rispetto alla narrazione del documentario di Trincia, che assume una posizione più netta nel denunciare un errore giudiziario, propone una visione che non prende totalmente posizione da una parte sola. Il suo intento è quello di mostrare che ci sono stati elementi trascurati dal documentario e che le scelte degli operatori possono essere lette anche alla luce di un contesto più articolato, complesso e ambivalente. Quindi “meno univoca” in questo caso significa:

  • Non ridurre la vicenda a una semplice opposizione tra colpevoli e innocenti.
  • Esplorare aree grigie, come le buone intenzioni degli operatori, la possibile presenza di segnali di disagio reale nei minori, o la difficoltà di interpretare correttamente il loro comportamento.
  • Invitare il lettore a sospendere il giudizio, anziché adottare una posizione immediatamente indignata o assolutoria.   

[2] Cos’è la Lost in the Mall Technique? È una tecnica sperimentale ideata negli anni ’90 da Elizabeth Loftus e Jacqueline Pickrell per dimostrare quanto sia possibile creare un falso ricordo nella memoria di una persona, in particolare se questo ricordo viene presentato in un contesto credibile e familiare. Come funziona l’esperimento

  1. Ai partecipanti (spesso adolescenti o adulti giovani) venivano raccontati quattro episodi della loro infanzia, di cui tre erano veri (forniti dai familiari) e uno era inventato: l’episodio falso consisteva nell’essersi persi in un centro commerciale da bambini.
  2. L’episodio inventato veniva descritto con dettagli plausibili, come il panico, il pianto, l’aiuto ricevuto da una signora anziana, e il ricongiungimento con un familiare.
  3. Ai partecipanti veniva chiesto di scrivere tutto ciò che ricordavano di ciascun episodio.
  4. Nei giorni seguenti, molti partecipanti iniziavano a “ricordare” l’evento falso, aggiungendo persino nuovi dettagli spontanei, come l’abbigliamento della persona che li aveva aiutati o le emozioni provate.

Risultati principali

  • Circa il 25% dei soggetti sviluppava un falso ricordo convincente dell’episodio inventato.
  • Alcuni erano convinti che fosse successo realmente.
  • Anche dopo essere stati informati della falsità dell’episodio, alcuni faticavano a distinguerlo dai ricordi reali. Cosa dimostra
  • La memoria non è una registrazione fedele ma un processo ricostruttivo.
  • I bambini e gli adulti possono essere indotti a “ricordare” eventi mai accaduti, soprattutto se raccontati da persone di fiducia in modo verosimile.
  • La ripetizione, il contesto emotivo e la pressione sociale giocano un ruolo chiave.

Questa tecnica è stata utilizzata per sottolineare i limiti dell'affidabilità dei ricordi nei contesti giudiziari, specialmente nei casi di testimonianze infantili o durante la rievocazione di traumi attraverso tecniche suggestive.   


Il mio voto per il documentario è 9️⃣ su 🔟   

Dott. Charbel Farah - Psicologo

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